
Due pilastri della sostenibilità sono l’aspetto economico e quello sociale. Le aziende sono chiamate a rispettare le regole del mercato per non creare eventuali situazioni collusive o violazioni della concorrenza. Allo stesso tempo, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, devono garantire di non sfruttare i lavoratori e di promuovere politiche a favore dei diritti delle persone. Ne è convinto Luca Fornaroli, Partner e consulente di Strategia e Sviluppo Consultants (SSC), il quale sottolinea come la dimensione etica sia fondamentale: “Le imprese devono rispettare i lavoratori con contratti adeguati e anche curandosi delle necessarie misure di sicurezza, ma talvolta accade che gli imprenditori e i loro consulenti non vadano in questa direzione”.
Tutto questo vale anche per le multinazionali che, in molti casi, delocalizzano all’estero perché ci sono costi inferiori, ma poi non si curano degli aspetti morali riguardanti i lavoratori in quei Paesi. “Invece le valutazioni di tipo etico devono essere costanti, a 360 gradi, sia in casa propria sia fuori”, sostiene Fornaroli, che cita la Global Reporting Initiative (GRI, ente senza scopo di lucro che analizza le performance delle organizzazioni in termini di sostenibilità) per spiegare in che modo si possono aiutare le aziende a essere più sostenibili. “La GRI ha definito 37 standard generali, sociali, economici e ambientali per individuare eventuali problemi all’interno delle aziende (su temi come diversity, formazione, gerarchie, contratti, ecc.) e far capire loro in che direzione andare attraverso un report e una certificazione”.
Certamente non bastano un attestato e alcuni standard per definire un’azienda realmente sostenibile. Secondo Fornaroli, ci sono “un passo indietro e uno più in alto da fare per evitare che le imprese cadano nel cosiddetto social washing e facciano una mera operazione di marketing”. Questo ‘passo’ consiste nella vera adozione del principio etico sancito sia dalla Commissione Brundtland sia dalla Conferenza sullo sviluppo sostenibile di Rio de Janeiro nel 2012: “La crescita deve tenere conto della sostenibilità transgenerazionale e transnazionale”. Il punto etico in ambito aziendale, secondo il Partner di SSC, è il cambiamento del concetto di qualità del prodotto: “Se tanti anni fa era legata solo alla sua funzionalità e alle caratteristiche fisiche e materiali, successivamente é stata messa in relazione al fatto che non provochi danni alla salute e alla sicurezza dell’utilizzatore e oggi un bene è definito di qualità se è funzionale, bello, non pericoloso e sostenibile, cioè se rispetta principi economici, ambientali e sociali’”. Il concetto di sostenibilità deve quindi rientrare in quello di qualità, creando un mercato dove i consumatori cerchino quei valori e siano disposti a pagare anche di più per qualcosa che rispetti quei principi. In questo senso, per Fornaroli, persino le nostre Piccole e Medie Imprese possono avviare “una competizione di sistema sui temi della sostenibilità, soprattutto sociale, nei confronti, per esempio, delle aziende cinesi”.
In azienda, il Direttore HR ha il compito di ‘mettere a terra’ questi temi. Ma come può farlo? “Innanzitutto dicendo la verità e credendo in ciò che dice”, afferma il Partner di SSC. “Inoltre, oggi le logiche top-down e bottom-up hanno poco senso, perché danno per scontata un’organizzazione gerarchica verticale. Invece, il migliore modello di gestione delle persone è più orizzontale, collaborativo, condiviso, che consenta loro di dare il proprio contributo alle procedure e politiche aziendali senza doverle subire”. Tale tema in azienda passa, dunque, “attraverso un maggiore coinvolgimento dei dipendenti, per capire come possano migliorare l’attività dell’impresa grazie alle loro idee”.

A questo proposito, secondo Fornaroli, la Direzione HR non deve selezionare solo candidati con competenze tecniche (seppur fondamentali), ma anche con conoscenze umanistiche e scientifiche non prettamente ingegneristiche. “Come diceva l’imprenditore Adriano Olivetti, conta moltissimo far sentire le persone integrate in una comunità, creando un rapporto tra l’azienda e il suo territorio. L’impresa diventa cosi ‘parte’ dell’ambiente, un ‘bene’ di cui la società si prende cura, nel rispetto dei ruoli reciproci e dei diritti della proprietà, non solo il posto dove si va a lavorare”. Questo vale anche per la formazione che, pur considerando i fondamentali aspetti tecnici, “‘dev’essere innanzitutto culturale” per aiutare a garantire la sostenibilità dell’impresa anche rispetto alle esigenze di un consumatore più consapevole.